
Migranti: chi accoglie e chi no?
di Claudio Buongiorno Sottoriva
Sai, Servizio di Accoglienza e Integrazione, è il nuovo nome che il Decreto Immigrazione ha attribuito al sistema Sprar-Siproimi. I singoli progetti di accoglienza sono gestiti dagli enti locali, per lo più comuni, che ne facciano richiesta.
Il Sai, quindi, come i suoi predecessori, sarà una rete di enti locali volontariamente accoglienti che mettono in pratica progetti di accoglienza diffusa di rifugiati e, in via residuale, richiedenti asilo. L’aggettivo diffusa si riferisce alla suddivisione sia su tutto il territorio nazionale, sia all’interno dei territori dei singoli comuni, poiché nella gran parte dei casi i beneficiari sono ospitati in piccoli appartamenti sparpagliati nei centri cittadini. Il sistema, nato agli albori del 2000, ospita però soltanto una minima percentuale dei rifugiati e richiedenti asilo. Allo scorso settembre, nonostante 100 mila individui in meno da accogliere rispetto al 2017, solo il 30% degli 80 mila beneficiari di una forma di accoglienza erano nel sistema Sprar-Siproimi. Nel 2017 la percentuale si era attestata intorno al 13% (2017).
Perché il sistema Sprar-Siproimi non riesce a rispondere, nemmeno in tempi normali, a questa “domanda di accoglienza”? Tra i tanti fattori, poco più di un comune ogni dieci ha attivato un progetto Sprar, in forma singola o associata. Se anche si considerassero i comuni che accolgono sul loro territorio, magari perché la provincia o la Asl di riferimento ha un proprio progetto, difficilmente si supererebbero i 2 mila enti sul totale di 8 mila comuni italiani.

La mappa segna tutti i comuni che abbiano attivato almeno un progetto Sprar negli ultimi 9 anni. Sono pochi ed iniquamente distribuiti sul territorio italiano. Al sud, dove con più difficoltà gli accolti potrebbero trovare opportunità lavorative, i progetti sono molti. Tanto che, metà dei beneficiari Sprar-Siproimi è ospitata in sole 4 regioni del centro-sud: Sicilia, Lazio, Calabria, Puglia.
Indagando quali siano i motivi che spingono i comuni ad attivare un progetto Sprar, per le attivazioni del 2017, è possibile osservare una correlazione con variabili di tipo politico (l’orientamento a destra della popolazione e l’anno di mandato del sindaco) e sociali (il tasso di occupazione degli stranieri in loco -una misura dell’integrazione- e il numero di abitanti del comune).

Sembrerebbe che comuni del sud, più grandi o con una maggiore integrazione degli stranieri già sul territorio attivino uno Sprar con una maggiore probabilità. Invece i comuni con una maggiore tendenza di destra o più vicini alla prossima tornata elettorale municipale attiverebbero uno Sprar con meno probabilità. Risultati in linea con le nostre aspettative in fondo. Eppure, se utilizzassimo lo stesso modello separando i risultati dei comuni del nord da quelli del centro-sud otterremmo risultati statisticamente significativi solo per i primi. I comportamenti dei comuni del centro-sud, quindi, non sembrerebbero spiegati da queste variabili politiche e sociali.
Perché? Due sembrano le migliori spiegazioni: la necessità di risorse e la vicinanza ad altri comuni Sprar. I comuni del sud, caratterizzati da fondamentali economici in media peggiori, potrebbero mettersi attivamente alla ricerca di fondi pubblici da convogliare sul territorio. Sebbene questo non rappresenti di per sé un problema, quando i fondi siano indirizzati in maniera giusta e trasparente, la situazione costituisce un problema invece per il modello Sprar. I comuni che accolgono, infatti, non sarebbero quelli più solidali con i migranti (semplificando, quelli più a sinistra) e neppure i più bisognosi di manodopera straniera (quelli del nord, più ricchi o con economie stagionali nel turismo e nell’agricoltura). La seconda spiegazione, più incoraggiante, potrebbe risiedere in un processo di imitazione e saturazione del sistema Sprar.

Se al sud molti comuni si sono impegnati nel passato nello Sprar, relativamente più che al nord, è possibile che i comuni che via via si sono aggiunti abbiano basato la loro scelta più che su caratteristiche socio-politiche, sull’esempio positivo dei vicini Sprar-Siproimi. Questa seconda possibilità, pur affascinante, non può da sola eliminare le preoccupazioni che genera la prima ipotesi.
Insomma, il nuovo sistema Sai, pur ripartendo dall’esperienza Sprar, tutto sommato positiva, dovrà confrontarsi con due domande: come aumentare il numero di posti a disposizione di questa forma di accoglienza, senza snaturarne la volontarietà e incentivando i territori che possono trarne i maggiori benefici? Come risolvere i problemi che le progettualità Sprar hanno comunque mostrato? Così facendo si potrebbero finalmente svuotare i “grandi centri” che troppo spesso ghettizzano e non garantiscono un’accoglienza dignitosa, con tutti i rischi che questo comporta.